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19/04/2002
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Nonostante avesse la corteccia del poliziotto americano Dondoni non aveva mai avuto a che fare con un caso come il mio, così assortito di incognite e sorprese da sembrare una schedina miliardaria. A partire dal movente, dal motivo che mi aveva steso lì per terra a prendere il sole e perdere sangue. Perché uccidere un uomo dall'aria così ingenua e sonnolenta? A chi avrebbe potuto dar fastidio uno come me? Prima o poi m'avrebbe ucciso il terzo millennio, con gli atomi e gli embrioni esposti in vetrina al fianco di un pandoro.
Mentre stava ordinando alfabeticamente i bossoli delle pallottole che mi avevano mancato, Dondoni fu richiamato alla radio dal suo collega Gerardo Martelli: un poliziotto metallaro che per incapacità manifesta era impiegato al centralino.
"Dondoni, Dondoni... Appuntato Dondoni".
"Eccomi. Dimmi Martelli".
"Appuntato ci pensi lei al cadavere rinvenuto. Appena possibile le invieremo dei rinforzi, ma per adesso deve arrangiarsi da solo. Rissa furibonda allo stadio".
"Neanche una pattuglia?".
"Negativo. Dondoni, ci pensi su. Già i nostri le stanno buscando di santa ragione, poi le mando pure qualcuno... Anzi, appena può ci raggiunga anche lei. Questi sono gli ordini del capitano".
"Martelli, t'avverto - ribatté Dondoni con tono minaccioso - Se questa è una delle tue stavolta la paghi".
"Appuntato come glielo devo dire. Anche il Prefetto ha autorizzato la rimozione del cadavere: come farà è affar suo. Passo e chiudo".
Fu come se una delle revolverate andate a spasso avesse fatto il giro dell'isolato per colpire Dondoni alla schiena. Come si provvede a un cadavere? Esiste una mutua per gli ammazzati vuoto a rendere?
Dipendere da qualcuno era una cosa che non sopportavo già da ragazzo. Fuori di casa dall'età di vent'anni avevo subito imparato le regole di un campare rigido e razionato che bastava solo a me stesso, un vivere da marocchino - come lo chiamava mio padre - che alle volte sembrava più un castigo che una scelta. Certo ne ho passate di giornate storte, di lune quartaiole che non val la pena ricordare, pero quella libertà mi permetteva di annaffiare con ostinazione l'orticello della mia letteratura. Per mantenermi suonavo il sassofono nei bordelli mitologici della Versilia: sottoscala fatiscenti pieni di uccelli, di piante carnivore e di ragazze spaventate che facevano l'amore soltanto per fame. Mi restava così il tempo per scrivere racconti e giocare a morra con gli amici fino alle prime luci del mattino, quando i battelli dei contrabbandieri (carichi di prostitute) salpavano in direzione dei mercati di Marsiglia. Un paio di investimenti sfortunati e l'aumento improvviso del fitto della stanza ridussero i miei risparmi veramente moribondi.
Quando non avevo i soldi per pagare la pensione lasciavo in consegna al portiere gli originali del libro che stavo scrivendo, ma neanche quel baratto intellettuale funzionò a lungo. Presto il portiere si stancò di sorvegliare sempre le stesse carte e mi escluse dai suoi piani senza un'oncia di pietà, ma quando credetti di essere sul punto di deporre la penna e tornare a casa, arrivò clamorosa l'assunzione all'Unità come cronista. Quello del giornalista era un mestiere adatto più ai miei bisogni che alle mie capacità. Lavorare di parola mi dava la possibilità di riscattare quel letargo, di sgonfiare tutti quei sacrifici che sembravano servire a niente. Dopo l'incarico all'Unità anche gli abbracci di mio padre divennero più rotondi e volenterosi, come se avesse di colpo accettato la mia "pazza idea di fare l'artista".
Piacevolmente sorpreso di aver piantato un bastone e averlo visto germogliare. Marocchino o giornalista, quasi sempre i soldi fanno mezza dignità.

email: fabietto13@libero.it