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07/05/2002
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"Dondoni, fa' una cosa. Lo lascio a te e più tardi vengo a riprendermelo. Faccio sgomberare l'obitorio e lo mettiamo lì, in attesa che qualche cane se lo venga a piangere".
"Ma vuoi scherzare? Non se ne parla proprio".
"Dai Gaetano, si tratta solo d'un paio d'ore. Il tempo di sfornare Colapietra e poi sono da te. Me lo prendo e buonanotte".
"Ma dove lo porto intanto?".
"Lo tieni a casa, tanto nel cellophane è al sicuro. Dove vuoi che vada. Questo resta fermo lì dove lo metti".
Di fronte all'unica soluzione rimasta, alla sola speranza di potersi di lì a due ore liberarsi finalmente di me, Dondoni finì disperatamente per accettare. Insieme tirarono giù il mio cadavere e lo sdraiarono sul sedile posteriore dell'auto della Polizia.
Da piccolo mi ero già seduto su quel velluto azzurro di Stato. Mio padre era arrivato alle mani con la proprietaria del bagno Isola Bella, dove trascorrevamo l'estate a Forte dei Marmi, e io per tenere fede all'indole socio-politica della famiglia avevo spaccato a suo figlio quel ghigno da fittacamere in erba. Tutti e due fummo condotti al Commissariato di Viareggio dove, in tutta onestà, ci trattarono da gran signori: col Chianti di buona stagione e due foto ricordo, una di faccia e l'altra di fianco. Durante quel percorso ricordo di essermi sdraiato a guardare il cielo stranamente lungo quanto quel sedile, e che il lamento della sirena sembrava una strana litania che richiamava la memoria a una fiaba norvegese più che a un epico arresto familiare. Per la seconda volta provavo quel sedile e per la seconda volta ero disteso e non seduto, orizzontale e non cosciente, come se qualcuno mi avesse conservato il posto venticinque anni dopo per farmi provare l'ebbrezza della prosecuzione di quella baruffa tra pischelli.
Dondoni fu gentile, ossequioso e veramente tollerante. Non è da tutti prendersi in casa un uomo senza vena, un tale senza spirito com'ero ridotto da quel piombo. L'appuntato si diede un gran da fare per coprire con tante lenzuola tutti gli specchi del suo appartamento. Si dice da sempre che quando un morto riesce a guardarsi non va più via dal luogo in cui la sua anima ha rivisto la luce del cristallo. Nella camera dove fui sistemato regnavano un disordine campestre e qualche squillo da foresta. Era il regno di un pappagallo spelacchiato che stava in quella casa da più di vent'anni; non parlava quando glielo chiedevano bensì nelle occasioni più impensate, ma allora lo faceva con una chiarezza e un uso della ragione che non erano molto comuni negli esseri umani.
In casa di Dondoni quella domenica si sarebbe dovuto festeggiare di gran carriera il compleanno di Martina, il piccolo smeraldo che Dondoni aveva messo al mondo come in commercio. Era una bambina scura e magra come sua madre, tutta disegnata di pastello perché quella faccia tropicale potesse spiccare meglio al sole dei grembiulini che indossava. Per quel giorno Martina s'era fatta regalare una serie infinita di bambole parlanti: diceva che le avrebbe tutte adottate dopo il suo matrimonio e che in attesa di quel giorno avrebbe passato il tempo a preoccuparsi che restassero vergini.

email: fabietto13@libero.it